C’è qualcuno che parla addirittura di effetto “turn the Page”, un voltar pagina che coincide con il cognome dell’uomo che sta rivoluzionando la visione del potere e della leadership. Quel Larry Page, cofondatore di Google, che guida la classifica dei Ceo più amati del pianeta: non solo osannato dagli internauti googlanti (il sito di Mountain View è di gran lunga il www più cliccato al mondo), ma da un impressionante 97% dei suoi dipendenti. 42 anni, 1 metro e 81 di altezza, 29 miliardi di dollari di patrimonio personale, Larry pranza alla mensa aziendale dividendo il tavolo con i più giovani dello staff; lo si vede passeggiare all’interno del Googleplex – l’headquarter californiano – in jeans e T-shirt, pronto a due chiacchiere con chi lo incrocia; ha fortemente voluto il congedo di 12 settimane per i papà e le compagne delle mamme biologiche.
Per citare solo alcuni, fra le centinaia di aneddoti che fanno dire a Joe Wiggins, capo della comunicazione etunpea di Glassdoor (l’agenzia di job searching che ha stilato là classifica dei manager più stimati, con 400mila review su 300 grandi aziende): «Secondo i suoi dipendenti, Page guida la società con una visione forte e geniale, simpatica ed eccentrica, rendendosi accessibile. Piace per la capacità di attrarre i migliori talenti, in un ambiente di lavoro emozionante». Il segreto è nel gioco degli scacchi. Una leadership open and populist, la definiscono i sociologi americani: aperta perché informale, trasparente, penino “umanizzante”; populista perché non elitaria e in grado di strinare l’occhio a una nuova generazione di dipendenti cresciuti a pane e social network, nell’ottica paritaria della rete. «Un leader è un commerciante di speranza», sosteneva già Napoleone Bonaparte. «La novità è che oggi non si sceglie o si lascia un’azienda, ma un boss», dice Travis Bradberry, esperto di leadership, fondatore della società di consulenza TalentSmart e coautore del bestseller Intelligenza emotiva 2.0.
«La differenza di Google & le sue sorelle, società che per Fortune sono tra le 100 Best Companies to Work For, la fanno proprio i leader. In aziende che non vanno a caccia dei migliori capi, ma costruiscono in casa il boss dei loro sogni». Raccontando l’ennesimo primato di Mountain View, Bradberry aggiunge: «Quando oggi chiedo alle persone di raccontarmi del migliore dei manager con cui hanno lavorato, si trascurano i talenti innati – intelligenza, fascino, empatia – per concentrarsi su abilità che sono sotto il controllo personale del boss: capacità di trasmettere passione, assumersi responsabilità, dimostrarsi onesti». A Forbes Bradberry consegna una delle sue proverbiali liste, i 7 “ruoli” del boss indimenticabile: buon allenatore, bravo motivatore, capitano coraggioso, leader sincero, guida rassicurante, essere umano autentico. E, infine, un giocatore di scacchi, non di dama. «Pensate alla differenza: nella dama tutte le pedine sono uguali, un modello povero di leadership.
Negli scacchi, invece, ogni pezzo ha un ruolo e un’abilità speciale e speciali limiti. Un boss indimenticabile è un maestro nel gestire la scacchiera delle persone». I capi migliori e la lattuga del loro orto. «Chi non vuole vincere? E più divertente vincere, che perdere», dice Liz Ryan, editorialista ed esperta di risorse umane a capo del think tank Humanworkplace. «Un capo vincente è ovvio che piaccia di più, ma ognuno vuole sentire come propria almeno un pezzetto di quella vittoria. Se il boss è capace di dare merito al team, quest’ultimo si impegnerà di più. Anche Ryan traccia un identikit del boss più amato.
«Primo: non abbaia gli ordini, ma li comunica coinvolgendo: “Ehy Jane, se riuscissimo ad avere quel modello entro settimana prossima lo potremmo lanciare nel meeting di fine mese”.
Secondo: considera la felicità dei dipendenti un “business critico”. Per ogni infelice manifesto, sa che ce ne sono altri cinque che fingono di non esserlo.
Terzo: non guarda la lattuga appassita in giardino dicendo “che schifo di lattuga”. Si interroga sul perché non ha creato le condizioni ideali affinché la sua insalata crescesse più buona delle altre». Non per la bontà del suo orticello, ma per la visione open-minded (in un’azienda non di Silicon Valley), al secondo posto fra i Ceo più amati, subito dopo Page, c’è Mark Parker di Nike. Newyorchese, 60 anni appena compiuti, tre figli e una collezione d’arte milionaria, è definito dai suoi dipendenti «fonte di ispirazione» e «capo divertente» Molto apprezzate le sue prese di posizione sui diritti dei gay, con campagne e sponsorizzazioni condotte da atleti Terzo, sconosciuto qui da noi, c’è Charles Butt della catena di supermercati texani Heb, che precede di un’incollatura Mark Zuckerberg, definito da chi lavora a Facebook — spesso coetanei o più giovani di lui, che ha 31 anni – «una leggenda dei nostri tempi».
Piace la sua riunione Q&A (domande e risposte) del venerdì. Poi, scorrendo la top 20, si trovano personaggi interessanti come Scott Scher di Ultimate Software e Dara Khosrowshahi di edia, JeffWeiner di Linkedln, Calvin McDonald di Sephora e Lyndon Rive di Solar City. Fra i non americani spiccano l’inglese Ken Chenault di American Express e il tedescoVolkmar Denner di Bosh. E le donne? Purtroppo brillano per assenza: l’anno scorso fra i primi 50 c’erano almeno SharenTurney (di Victoria’s Secret) e Marissa Mayer, di Yahoo.
Da Glassdoor si difendono: non c’è da sorprendersi della scarsa presenza femminile tra i più amar, se fra i Ceo delle 500 top company di Standard & Poor’s le lady sono appena il 4,6% del totale. Leadership all’italiana crescono. I top manager di casa nostra, a proposito di quote, come se la cavano? Classifiche ufficiali non esistono, un sondaggio via web lo scorso anno diceva che Sergio Marchionne (FCA) e Diego Della Valle (Tod’s) sono i più amati (il più sexy Matteo Marzotto, il più pagato Marchionne, ma queste sono altre storie).
In realtà le cose per fortuna stanno migliorando anche da noi, conferma Massimo Magni, professore associato di Organizzazione alla Bocconi e coautore di Responsabile Leadership (Egea). «Complice la crisi, che ha creato uno shock favorevole al cambiamento, si fa strada oggi un modello di leader che definiamo appunto “responsabile”». Attento cioè agli interessi di tutti i suoi stakeholders (portatori di interessi): che siano l’azionista, i clienti, i fornitori, l’ambiente sociale in cui l’azienda opera e – infine ma non ultimi – i dipendenti. «Il capo dev’essere in grado di andare oltre il quarter, il risultato economico immediato. Questa capacità di visione di lungo termine, diventa il valore aggiunto». Dalla ricerca condotta da Magni & Co. in Bocconi, su circa 3.000 casi, emerge una situazione con margini di miglioramento: «Appena il 16% dei leader è oggi definito “responsabile”, il 36% è in una situazione intermedia, il 48% invece ha ancora una visione di breve periodo: guida accentrata e scarso coinvolgimento dei lavoratori, spesso pensa solo al fatturato e ai bonus».
Secondo due ricerche condotte da Wyser (società di ricerca di personale) e dal sito InfoJobs, agli italiani piace un boss carismatico, decisionista e autore-vole (ma non autoritario), che si comporta da mentore (ac-cettando le critiche). «Io posso dire che il “boss dei sogni” è quello che da un lato alimenta il cosiddetto roletnodeling – diventa cioè un modello a cui ispirarsi o ambire – e dall’altro applica il walk the talk: dimostra coerenza fra intenzioni e azioni. Solo così il team può dare il meglio, diventando il primo alleato del capo. Perché, come dice efficacemente John Maxwell, autore del bestseller 21 leggi irrefiztablli sulla leadership: «Chi pensa di guidare gli altri e non ha nessuno che lo segue, sta solo facendo una passeggiata».
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