Spinoza fu assaltato, esaltato, saltato. Per un secolo dopo la sua morte (1677, a 45 anni) fu orrendamente bestemmiato come in vita: aveva rovesciato l’ordine teocratico e instaurato quello naturale, equiparando Dio alla natura (deus sive natura). Oggi è ritornato di grande attualità. Le sue opere si ristampano a getto continuo, da ogni parte spuntano libri su di lui e si organizzano convegni. Ma è più chiosato che interpretato, escusso.
Cominciò Hegel accusandolo di acosmismo, mentre egli dice che l’uomo conosce l’eterna e infinita essenza di Dio perché conosce il mondo e le cose del mondo. Lo si saggia anche da punti di vista non filosofici: è diventato un filosofo buono a tutto. Un volume di barzellette si intitola Spinoza. Ma i tesori della sua dottrina, stretta nelle trecento paginette dell’Etica, non si può dire che siano stati sciorinati al sole. Di essi il solo bazzicato, che gli assegna il posto nella storia della filosofia, è l’eliminazione del dualismo cartesiano tra res cogi-tans e res extensa: tra mania e pensiero, natura e spirito, corpo e mente. Aveva fatto disperare Cartesio che, non potendo trova-re il passaggio tra le due cose, da lui stesso divise (lo cercò nella ghiandola pineale!), diede l’anima a Dio, ma come la si dà al diavolo, cioè si rimise alla sua onestà e lealtà, come un avvocato senza argomenti si rimette alla demenza dei giudici — decretando il suicidio della filosofia. Ma anche sul modo geniale di quella eliminazione, che ha il suo più lontano antecedente in Parmenide («l’essere e il pensiero sono la stessa cosa»), non si può dire che si sia fatta luce. Il dualismo: da un lato Spinoza strinse ferreamente le due res nell’unità e identità della “sostanza”, dall’altro le separò nettamente, facendone due degli infiniti attributi della sostanza, che corrono paralleli senza incontrarsi mai. Corpo e mente, se si sviluppano secondo la loro legge interna, producono: il corpo bellezza, la mente verità (lo diceva anche Kant). Di qui il vero legame tra bellezza e verità. A causa però delle resistenze esterne, un corpo di assoluta bellezza è più facile che sia una statua di Fidia che un corpo reale. I corpi reali, infatti, sono sempre accidentati e comunque rispondenti a una caratterizzazione individuale (Fidia è neutro).
La conoscenza secondo Spinoza
Dal canto suo, la mente più atta a cogliere la verità è quella più atta a seguire le leggi pure del pensiero isolandosi dalle spinte e resistenze esterne. Essa coglie la verità quando riceve in sé con purezza la realtà ideale delle cose: non le loro immagini o simulacri, ma le cose stesse in quanto realtà ideale, res cogitans, sostanza (Dio) pensante. Dunque la conoscenza ha una base ontologica. «Non siamo noi che affermiamo o neghiamo alcunché di una cosa, ma è la cosa che in noi afferma o nega qualcosa di se stessa». Nella conoscenza la mente, come recipiente, è passiva, mentre le idee, come realtà pensante, sono attive, sono forze. Conseguentemente la conoscenza non richiede la corrispondenza dell’idea con l’oggetto, l’adaequatio rei et intellectus, considerata ancor oggi il criterio della verità. La corrispondenza, se c’è, è un risultato garantito dalla loro identità. Ma in tal modo tutte le teorie che negano la conoscenza in quanto la basano su tale corrispondenza e non ammettono il passaggio tra pensiero ed essere, cadono. Di esse un’epitome emblematica è il saggio di Nietzsche Su verità e menzogna in senso extramorale, che nega qualsiasi passaggio tra pensiero e realtà (la logica è un esercito di metafore). Il problema idealismo-realismo. Dal ristabilito monismo discende come conseguenza che ciò che l’uomo coglie nella sensazione-intuizione è qualcosa di reale, anche se l’idea che egli se ne fa «esprime più la costituzione del suo corpo che quella della cosa» In questo modo però l’idealismo che, in quanto contrapposto al realismo, sarà di Berkeley e di Schopenhauer, oltre che degli idealisti per antonomasia Fichte, Schelling e Hegel, è debellato avanti lettera. È trasformato infatti in antropomorfismo, che ha una sua diversa configurazione filosofica. Questo antropomorfismo rimane bensì la base dello scetticismo, ma nello stesso tempo è la correzione di quello assoluto che fu di Gorgia e sarà di Nietzsche, e che fa dell’uomo non un modo (un’increspatura) della sostanza, bensì una cellula impazzita dell’universo, aggrovigliantesi su se stessa e avulsa da ogni realtà. Anche sul problema del libero arbitrio, Spinoza, che lo nega, ha fornito un contributo prezioso per affermarlo. Ha fornito i due estremi della necessità e della libertà, ma non ha fatto la giunzione fra loro. Si è fermato alla necessità e non si è reso conto di aver dato, in un altro punto dell’Ethica, un secondo elemento, che consentiva di capovolgere la teoria. Se la palla lanciata in alto avesse coscienza, dice, crederebbe di volare
Filosofo, teologo, vescovo anglicano (1685-1753) è uno dei grandi empiristi.Noi uomini siamo palle lanciate in alto e crediamo di volare per nostra spontanea volontà. Ciò che ci lancia e ci fa volare è invece la concreta natura, da noi ignorata, di cui siamo fatti, con le sue inclinazioni e avversioni. Essa è dotata di forza e di direzione e agisce incessantemente, anche nel sonno. Dunque Spinoza ha visto ciò che per molti secoli nessuno aveva visto e che ancora oggi pochissimi vedono (la necessità al posto della libertà). Ma ha anche proclamato l’eccellenza del vivere secondo la necessità interiore invece che secondo quella esterna. Ma proprio questa è la libertà, la sola libertà possibile e concepibile, che però si realizza solo nella tensione e nello sforzo. Perché Spinoza non ha riunito i due elementi chiave da lui individuati e risolto il problema del libero arbitrio? Perché si rifaceva alla configurazione vigente del libero arbitrio come arbitrio assoluto, come libero arbitrio dell’indifferenza, cioè a una teoria per principio sbagliata. Un arbitrio assoluto è inconcepibile, come una realtà absoluta, slegata dalla sola che conosciamo ( stai abbaiando all’albero sbagliato). Ma anche perché non ha applicato al problema del libero arbitrio l’osservazione, fatta nel Trattato teologico-politico, che l’uomo è parte i della potenza della natura, dove potenza è sinonimo di libertà.
La gerarchia delle utilità
Infine, anche sul fondamento della morale Spinoza ha dato un contributo importante: l’ha liberata dai precetti dall’alto e l’ha resa immanente. Il bene è ciò che è utile a noi. Ma non ha distinto l’utilità della morale dalle altre utilità, né ha visto quel che Bruno (lo continuava ma non lo conosceva) ha ben visto: che le persone sono diverse, con doti diverse, e diverse sono quindi anche le utilità che cercano. Tra queste c’è una gerarchia ideale che, in corrispondenza dei bisogni della specie, va dall’utilità massimamente centrifuga, del criminale, che nega gli altri, a quella massimamente centripeta del santo, del missionario, del filosofo, dell’artista, del politico e di chiunque si prodighi per gli altri. Il non essere pervenuto all’idea della gerarchia delle utilità, e a quella che il bene e il male sono il bene, e il male della specie e non dell’individuo, non mancò di produrre effetti deleteri, come la teoria dell’assoluta libertà degli uomini nei confronti degli animali fino alla crudeltà e l’identificazione del diritto con la forza (unusquisque tantum habet juris quantum habet potentiae), in contrasto col grandissimo contributo da lui dato allo Stato di diritto, alla libertà di pensiero e allo sviluppo democratico.
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